2 Re 4, 8-11.14-16a – Sal 89 – Rm 6, 3-4.8-11 – Mt 10, 37-42

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli:
«Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto.
Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

 

Commento al Vangelo della Domenica di don Gianni Baget Bozzo

2 Re 4, 8-11.14-16a – Sal 89 – Rm 6, 3-4.8-11 – Mt 10, 37-42

 


 

La vita umana per la vita divina

Il brano evangelico di Matteo che si legge in questa domenica sembra a prima vista non omogeneo nelle due parti che lo compongono: la prima parla del rapporto del discepolo con Gesù e l’altra del rapporto del discepolo con gli altri uomini. Il primo brano ha una sua terribile forza: sembra disumano, perché in esso appare il carattere potente e drammatico del divino in Gesù.

«Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me». Israele, e in genere tutte le tradizioni religiose, hanno valorizzato i rapporti sociali, soprattutto i vincoli famigliari. Il divino è anzi abitualmente la dimensione sacra di un gruppo, di una famiglia, di una tribù. Anche in Israele è così, appunto perché è attraverso un legame carnale (l’essere figli di Abramo) che il popolo ebraico sussiste come popolo di Dio. Il vincolo con il divino non passa attraverso la professione di fede, ma nella continuità della generazione.

Gesù chiede che il legame della generazione, dell’esser «figli di Abramo» venga rotto per amore di lui. Egli non parla alla famiglia, alla comunità, parla al singolo, che pone come solo innanzi al Cristo, solo. Tutte le frasi di questo brano evangelico si rivolgono al singolo: «Chi vuol essere mio discepolo…».

Si tratta di una rottura totale, inconcepibile nel mondo ebraico, ma anche nel mondo pagano. Possiamo comprendere che i tempi erano maturi a questa innovazione religiosa, perché in tutto il mondo ellenizzato e romanizzato sorgeva il tema della morte, l’evento individuale per eccellenza, non più come dato, ma come problema. Gesù domanda al discepolo quella rottura che la morte chiede a ogni uomo. E parla di «prendere la croce». Gesù fa un accenno alla sua stessa sorte. Non ha egli lasciato ogni cosa e abbracciato una strada di cui conosce, divinamente e umanamente, l’esito inevitabile, la croce?

La coscienza di Gesù di essere Dio è inseparabile dal più piccolo dettaglio, anche dei Vangeli sinottici, Matteo, Marco, Luca, che pure non giungono mai a chiamare, come in Giovanni, Gesù come Dio. Ma chi se non Dio poteva chiedere a un ebreo o a un pagano molto di più di quello che le rispettive religioni chiedessero loro?

Quello che Gesù offre in cambio del dono totale della vita umana è la vita divina: «Chi accoglie voi accoglie me: e chi accoglie me accoglie il Padre che mi ha mandato». Il discepolo diviene una sola carne con il Cristo, una sola divinità con il Padre. Chi perde la sua vita per Gesù, la troverà: lascerà la vita umana, troverà la vita divina. Gesù non è solo colui che annuncia il regno di Dio sulla terra: questa era stata la missione di Giovanni Battista. Gesù dice che lui è il Regno: e che chi diviene partecipe di lui, diviene regno di Dio, partecipe di Dio. Certo, un Dio che passa attraverso il supplizio degli schiavi, la croce.

Nella messa, dopo il Vangelo, si dice il Credo, in cui si annuncia l’onnipotenza divina. E l’onnipotenza divina si manifesta per il cristiano nel momento in cui essa compie l’impossibile per ogni religione: rende il divino crocifisso e impotente. In questo modo Dio comunica agli uomini la vita divina.

L’eucaristia è il rinnovarsi costante di questo evento: Dio diviene cibo per l’uomo e cambia così l’uomo in Dio. Se il mondo pagano divenne cristiano, fu per questa paradossale trasformazione dei rapporti tra Dio e l’uomo. È ancora così che noi intendiamo il cristianesimo? Se esso è visto come forma sacra, cultuale, se non sentiamo nel Vangelo la richiesta di abbandonare ogni cosa per diventare figli nel Figlio e partecipi della natura divina, il Vangelo diviene un libro chiuso e la messa una abitudine che non abbiamo la forza di interrompere. Il testo evangelico che chiede di amare il Cristo più di ogni altro volto, e di essere trasformati in lui suonerebbe a noi come una metafora che ha perso la sua originaria sponda.

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