Anno liturgico ciclo A

 

Commenti ai Vangeli delle festività

 

dall’11 giugno al 21 Settembre 2023

 

 

11 Giugno 2023

Seconda domenica dopo Pentecoste:

Corpo e Sangue di Cristo. La festa eucaristica da troppi «tradita»

 

Dt 8, 2-3.14b-16a – Sal 147 – 1 Cor 10, 16-17 – Gv 6, 51-58

Nel tempo dopo Pentecoste la liturgia contempla la figura del Cristo risorto nella sua gloria: Figlio del Padre nella Trinità, la cui festa è stata celebrata la scorsa domenica, cibo e bevanda dell’uomo nella festa di oggi, il Corpus Domini, la festa dell’Eucaristia. Questa festa è caratteristica della Chiesa occidentale e ha dato luogo alla più bella delle sue devozioni, quella dell’adorazione di Gesù Cristo presente nelle apparenze del pane e del vino su cui sono state recitate le sue parole nell’ultima cena: «Questo è il mio corpo», «questo è il mio sangue». Il testo evangelico che leggiamo è tratto dal capitolo sesto di Giovanni: ed è qui che Gesù pronuncia le parole che indicano il suo corpo come cibo e il suo sangue come bevanda. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue non vedrà la morte in eterno. Chi mangia di me vivrà di me».

Ancora oggi queste parole non hanno perso il sapore dello scandalo, anche se tutti sanno che la comunione è una piccola ostia bianca: nulla di così sanguinolento e carnale come queste parole di Gesù. Del resto ormai quanti sono i credenti che pensano veramente di mangiare il Figlio di Dio, di ricevere la vita eterna, di essere trasformati in lui grazie a quel gesto? Quante volte proprio il modo in cui i credenti ricevono l’eucaristia ricorda quelle parole di Gesù agli apostoli: ma voi pensate che, tornando, il Figlio dell’Uomo troverà ancora fede sulla terra?

La festa del Corpo del Signore venne istituita dopo il miracolo di Bolsena,  a cui dobbiamo il duomo di Orvieto: un miracolo del sangue scorrente dalla piccola ostia bianca per un sacerdote che dubitava della presenza reale del Cristo sotto le apparenze del pane e del vino. Per convincere i cristiani di oggi non basterebbe che tutte le ostie della terra sanguinassero. Ci si domanda il perché sia accaduta questa menomazione della fede nella presenza reale del Cristo. Forse è dovuto alla riforma conciliare che ha distrutto le forme di preghiera popolare, come l’adorazione all’Eucaristia, collegata a questa festa. Ma forse è accaduto perché non si è spiegato che la presenza di Gesù nel pane e nel vino ha per fine di trasformare noi in lui. «Chi mangia di me vivrà di me».

L’Eucaristia è rimasta una devozione, non è stata vista come una trasformazione in Cristo di chi lo riceve eucaristicamente. Il corpo di Cristo eucaristico fa il corpo mistico del Cristo che è ciascun cristiano e la Chiesa tutta. Ma la Chiesa tutta attraverso ciascun cristiano.

Lentamente il mistero centrale della nostra fede, la trasformazione dell’uomo in Dio in conseguenza della trasformazione di Dio nell’uomo, esce dall’attenzione, dall’intelligenza: e lentamente dal culto. Non abbiamo più né il gregoriano, né le chitarre, né l’altare né la mensa. Non ascoltiamo una lettura del mistero divino che diviene la nostra vita eterna, quella che non vedrà mai la morte.

Partecipiamo al banchetto in cui ci è offerta in cibo l’eternità come a una svogliata cerimonia pubblica da gente per bene. Forse l’ultima categoria di persone, cui si è rivolto Gesù, che pur si rivolgeva a tutti. Forse assistiamo al lento deperire del cristianesimo, nella sua prima terra di adozione, l’Europa, senza nemmeno sapere per quale ragione ciò accade. La festa del Corpo e del Sangue del Signore ci ricorda i limiti della nostra fede.

 

 

 

18 Giugno 2023

Undicesima domenica del tempo ordinario

Le credenziali della Chiesa

 

Es 19, 2-6a – Sal 100 – Rm 5, 6-11 – Mt  9,36-10,8

Il Vangelo che leggiamo oggi indica il momento in cui Gesù fonda il suo nuovo Israele, quello che diverrà poi la Chiesa. Lo fa perché l’Israele che ha innanzi è costituito da pecore «stanche e sfinite» perché «senza pastore». Ma egli, prima di passare a un atto di fondazione, afferma: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe». Chiede l’aiuto del Padre, non fa riferimento a un atto suo. Poi immediatamente lo compie. Chiama a sé dodici discepoli e dà loro «il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattia e di infermità». Dopo una invocazione al Padre, a cui ha invitato i dodici discepoli ad associarsi, egli decide il passo della fondazione del nuovo Israele.

Gli apostoli sono dodici come le dodici tribù e l’evangelista ne indica i nomi. La sua azione porta in sé l’esaudimento della preghiera rivolta al Padre. L’episodio mostra la collaborazione tra il Padre e il Figlio nell’origine della Chiesa. E lo Spirito Santo è presente nell’atto di Gesù, che dà il suo potere spirituale ai dodici.

Nella lettura cristiana di questo testo evangelico, è possibile sentire l’aura del mistero trinitario. Ma all’inizio la missione è limitata a Israele: «Non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani». Gesù assegna in questo testo ai dodici dei limiti che non ha assegnato a sé stesso. Sembra che egli desideri che la sua comunità, il nuovo Israele, sia la trasfigurazione dell’Israele esistente.

Appare dal testo che Gesù intende fondare una comunità, un nuovo inizio. Il Regno che egli predica è un regno interiore, è l’immediatezza di Dio presente nel cuore umano. Ma è anche un popolo, un nuovo popolo che continua l’antico. Gesù ha voluto che non solo le persone, ma anche le relazioni che le esprimono si manifestassero in una forma sociale e storica.

Egli ha già compreso che non saranno le istituzioni di Israele, i custodi del tempio e quelli della Scrittura, ad accettare il Regno. Ma pensa che il popolo della terra, trascurato dai sacerdoti e dagli scribi, possa riconoscere nei segni di misericordiosa potenza («guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni») il segno di Dio.

Questo testo è presente nella memoria della Chiesa nascente: gli Atti degli apostoli descrivono la missione cristiana come accompagnata da questi segni. La Chiesa nasce qui da un preciso gesto di Gesù che fa dei dodici il fondamento della nuova comunione, del nuovo popolo di Dio. I dodici sono il legame tra Gesù e la sua comunità.

La fede cattolica si fonda su questo nesso: la successione apostolica, il criterio con cui, già nei primi secoli cristiani, si stabilirà l’autenticità della Chiesa, il suo legame con Gesù. Il legame sono questi dodici uomini, di cui sappiamo poco, salvo che di Pietro, oltre il testo evangelico. Ma la Chiesa sa che su di essi si fonda la sua connessione con Cristo: e ha letto i ministeri ordinati (l’episcopato, il presbiterato) come connessione nel tempo a questo gesto iniziale di Gesù. Gli apostoli non sono Gesù, il fascino universale di lui non discende su di loro. Eppure solo attraverso altri da lui possiamo entrare in contatto con lui.

Se una potenza di discernimento non avesse operato nella comunità di Gesù, nella Chiesa, noi non avremmo i Vangeli, la memoria del Gesù prepasquale, la figura che esprime in sé la pienezza del desiderio umano appunto perché vive nel tempo divino.

Questi Vangeli, queste memorie di Gesù, sono l’opera prima della sua comunità. È essa che lo ha impresso nella memoria, dove ogni uomo può trovarlo. I Vangeli sono le credenziali della Chiesa, che vive in sé stessa il segno del suo fondatore, attraverso le vicende del tempo e dello spazio.

 

 

25 Giugno 2023

Dodicesima domenica del tempo ordinario

Il coraggio dei disarmati, unico potere del Regno

 

Ger 20, 10-13 – Sal 69 – Rm 5, 12-15 – Mt 10, 26-33

Questo è il Vangelo del coraggio dei disarmati, il coraggio cristiano per eccellenza. Gesù manda i discepoli ad annunziare il regno di Dio che viene: ma essi stessi sono l’unica potenza di questo Regno. Sono noti gli atti di violenza dei cristiani, quelli commessi, per esempio, nella conquista delle Americhe, nella tratta degli schiavi o dell’Inquisizione. Questi segni di violenza mostrano come l’Anticristo si nasconda nel corpo di Cristo. «Da noi sono usciti, ma non erano dei nostri», dice Giovanni di coloro che chiama gli anticristi. E, non a caso, la più perfetta figura di Anticristo, che agisce nel nome del Cristo, è data dalla «Leggenda del Grande Inquisitore»  di Dostoevskij.

La violenza non è mai insegnata dal Vangelo, che ammette la forza dello stato, ma non quella dei suoi discepoli, a cui egli ha dato l’esempio del messianismo più disarmato. E ciò quando il Messia era atteso come la potenza di Dio per liberare e riunire Israele. Al posto del Regno, viene la fede nel Regno: anzi il Regno consiste proprio nella fede dei disarmati. A essi è chiesto di fare quel che Gesù non ha fatto. Egli, che tante volte ha chiesto loro di tacere su di lui, specie sulla realtà di Messia di Israele, chiede loro invece di non nascondere nulla. «Quello che vi dico nelle tenebre proclamatelo sopra i tetti». È quello che fecero i discepoli in Israele e fuori Israele, in tutto il mondo pagano.

Perché il mondo romano abbia odiato il nome cristiano rimane misterioso, e lo fu anche ai romani stessi. Ma all’inizio fu come se il mondo cospirasse a distruggere il seme cristiano, intendendolo nella sua radicale pretesa di riconoscere la vita divina offerta nella fede a ogni uomo e quindi portatore di una violazione del limite e del potere: mentre sul limite era fondata la sapienza greca e sul potere la giustizia romana. Forse fu per questo senso di un illimitato che sconvolgeva la società a partire dal basso, perché riconosceva al singolo la vita eterna che negava sia al sapere che al potere, alla maestà degli stati e delle società.

Su ogni cristiano avrebbe vegliato la provvidenza del Padre: essa avrebbe dato la forza di temere non quelli che uccidono il corpo, ma quelli che vogliono soffocare la vita dello spirito, la vita divina nell’anima. Non per gli affetti cari, per la famiglia, per la patria, Gesù chiede la vita, ma per Dio: per testimoniare che il suo Regno è giunto, perché egli può essere tanto amato.

Chi poteva pensare nel mondo antico che gli dei potessero essere amati? E infine i precetti non soffocavano in Israele l’unico grande precetto, che non era quello di obbedire Dio, ma di amarlo?

Perché Dio potesse essere amato, occorreva che egli avesse passeggiato sulle vie del mondo, che si fosse dimostrato amabile, capace di ispirare una passione d’amore più grande della vita e di ogni altro amore. E questo voleva dire il regno di Dio: che Dio era amato dall’uomo come una donna, un figlio, una madre, un padre, una tradizione. Il regno di Dio stava nell’amore dell’uomo per lui sino alla morte.

Il cristianesimo comparve quando si inventarono i martiri. E in essi i cristiani scopersero il loro vero senso, che stava nel vivere il giorno eterno per amore di un Dio che non toccavano, ma che dava loro, con il suo Spirito, gli occhi per credere in lui.         

 

 

 

2 Luglio 2023

Tredicesima domenica del tempo ordinario

La vita umana per la vita divina

2 Re 4, 8-11.14-16a – Sal 89 – Rm 6, 3-4.8-11 – Mt 10, 37-42

Il brano evangelico di Matteo che si legge in questa domenica sembra a prima vista non omogeneo nelle due parti che lo compongono: la prima parla del rapporto del discepolo con Gesù e l’altra del rapporto del discepolo con gli altri uomini. Il primo brano ha una sua terribile forza: sembra disumano, perché in esso appare il carattere potente e drammatico del divino in Gesù.

«Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me». Israele, e in genere tutte le tradizioni religiose, hanno valorizzato i rapporti sociali, soprattutto i vincoli famigliari. Il divino è anzi abitualmente la dimensione sacra di un gruppo, di una famiglia, di una tribù. Anche in Israele è così, appunto perché è attraverso un legame carnale (l’essere figli di Abramo) che il popolo ebraico sussiste come popolo di Dio. Il vincolo con il divino non passa attraverso la professione di fede, ma nella continuità della generazione.

Gesù chiede che il legame della generazione, dell’esser «figli di Abramo» venga rotto per amore di lui. Egli non parla alla famiglia, alla comunità, parla al singolo, che pone come solo innanzi al Cristo, solo. Tutte le frasi di questo brano evangelico si rivolgono al singolo: «Chi vuol essere mio discepolo…».

Si tratta di una rottura totale, inconcepibile nel mondo ebraico, ma anche nel mondo pagano. Possiamo comprendere che i tempi erano maturi a questa innovazione religiosa, perché in tutto il mondo ellenizzato e romanizzato sorgeva il tema della morte, l’evento individuale per eccellenza, non più come dato, ma come problema. Gesù domanda al discepolo quella rottura che la morte chiede a ogni uomo. E parla di «prendere la croce». Gesù fa un accenno alla sua stessa sorte. Non ha egli lasciato ogni cosa e abbracciato una strada di cui conosce, divinamente e umanamente, l’esito inevitabile, la croce?

La coscienza di Gesù di essere Dio è inseparabile dal più piccolo dettaglio, anche dei Vangeli sinottici, Matteo, Marco, Luca, che pure non giungono mai a chiamare, come in Giovanni, Gesù come Dio. Ma chi se non Dio poteva chiedere a un ebreo o a un pagano molto di più di quello che le rispettive religioni chiedessero loro?

Quello che Gesù offre in cambio del dono totale della vita umana è la vita divina: «Chi accoglie voi accoglie me: e chi accoglie me accoglie il Padre che mi ha mandato». Il discepolo diviene una sola carne con il Cristo, una sola divinità con il Padre. Chi perde la sua vita per Gesù, la troverà: lascerà la vita umana, troverà la vita divina. Gesù non è solo colui che annuncia il regno di Dio sulla terra: questa era stata la missione di Giovanni Battista. Gesù dice che lui è il Regno: e che chi diviene partecipe di lui, diviene regno di Dio, partecipe di Dio. Certo, un Dio che passa attraverso il supplizio degli schiavi, la croce.

Nella messa, dopo il Vangelo, si dice il Credo, in cui si annuncia l’onnipotenza divina. E l’onnipotenza divina si manifesta per il cristiano nel momento in cui essa compie l’impossibile per ogni religione: rende il divino crocifisso e impotente. In questo modo Dio comunica agli uomini la vita divina.

L’eucaristia è il rinnovarsi costante di questo evento: Dio diviene cibo per l’uomo e cambia così l’uomo in Dio. Se il mondo pagano divenne cristiano, fu per questa paradossale trasformazione dei rapporti tra Dio e l’uomo. È ancora così che noi intendiamo il cristianesimo? Se esso è visto come forma sacra, cultuale, se non sentiamo nel Vangelo la richiesta di abbandonare ogni cosa per diventare figli nel Figlio e partecipi della natura divina, il Vangelo diviene un libro chiuso e la messa una abitudine che non abbiamo la forza di interrompere. Il testo evangelico che chiede di amare il Cristo più di ogni altro volto, e di essere trasformati in lui suonerebbe a noi come una metafora che ha perso la sua originaria sponda.

 

 

9 Luglio 2023

Quattordicesima domenica del tempo ordinario

Dio nel mondo: il Cristo crocifisso

 

Zc 9, 9-10 – Sal 145 – Rm 8, 9, 11-13 – Mt 11, 25-30

Forse Gesù avrà visto un uomo portare la croce su cui essere crocifisso: i romani amavano questo supplizio umiliante, riservato agli schiavi. Il supplizio degli schiavi ribelli: una lunga litania di croci aveva segnato la ribellione di Spartaco.  In quella croce avrà letto il suo futuro. A un certo momento della storia evangelica, la croce non era per Gesù solo un’evidenza profetica, ma una previsione politica.

Egli aveva coalizzato contro di sé tutti i poteri: e quello totale, quello romano, crocifiggeva. Prendere la croce voleva dire portare la sofferenza inflitta dagli uomini o dalla natura. Accettarla significava compiere la volontà di Dio e essere così discepolo di Cristo. «Chi avrà trovato la sua vita, la perderà. E chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà». Chiunque ha dato la sua vita a Cristo, ha trovato la sconfitta nel mondo.

La sconfitta mondana è il segno certo dell’appartenenza a Cristo. Il successo mondano lo è per un certo tempo e in un certo modo. Poi anche esso è una via alla croce. Dio nel mondo è il Cristo crocifisso, lo Spirito Santo conduce ogni discepolo sulla via del suo Signore. Non è segno di Cristo la ricchezza e non lo è nemmeno la povertà. La croce, che bussa ai palazzi e ai tuguri, è il segno di Cristo. E lo è prima e principalmente la croce scelta per amore della verità. Sono le parole più impegnative che Gesù rivolge ai discepoli. Egli non vuole essere seguito come un operatore di guarigioni e di miracoli, egli porta in sé il mistero della sofferenza divina, come dei partecipi del mistero del Dio crocifisso.

Il discepolo diviene così, nella accettazione della croce, una sola cosa con il Cristo. «Chi accoglie voi accoglie me: e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». Chi accoglie la sofferenza del Cristo accoglie il mistero Dio.

Siamo qui al cuore del Vangelo, alla densità profonda della persona e del messaggio di Gesù Cristo. Come lontano dall’altro grandissimo messaggio spirituale dell’umanità: quello di Buddha.

Buddha vuole eliminare dalla terra il dolore, vuole collocare lo spirito umano in una zona in cui il dolore non giunge, vuole operare una giuntura dello spirito, dell’anima e del corpo. Gesù invece comunica il dolore divino, non lo fugge ma lo accetta, perché esso fa parte dell’essenza del Dio che ha creato il mondo della libertà.

Certo molti discepoli del Cristo giungono al momento in cui sentono di aver perso la propria vita. Anche le loro vittorie terminano in esemplari sconfitte. Ma solo se il seme muore porta molto frutto. Quelle azioni chieste dal Signore non erano cose, erano semi, destinati a fecondare la terra.

Nel momento in cui si vede la propria vita perduta, la fede ci dice che essa è donata ad altri. Altro è chi semina, altro chi miete. E chi miete seminerà ancora. Questa è la storia di Gesù Cristo.

 

 

 

16 Luglio 2023

Quindicesima domenica del tempo ordinario

Uomini piccoli, grandezza infinita

 

Is 55, 10-11 – Sal 65 – Rm 8, 18-23 – Mt 13, 1-23

Gesù sale su una barca. Siamo in Galilea, nella primavera del Vangelo, quando attorno allo sconosciuto predicatore che veniva da Nazaret e che parlava oltre le gerarchie stabilite, come fanno i profeti, si raccoglievano le folle. Ma Gesù sa già che le folle non lo seguiranno, che egli non sarà nella sua vita un leader di massa.

Se lo avesse voluto, avrebbe seguito il consiglio che «l’intelligentissimo spirito» (come il cardinale Inquisitore chiama il tentatore, Satana, nel racconto di Dostoevskij ) e avrebbe dato agli uomini pani, miracoli, potere. Ma «il potere logora chi non ce l’ha»  e Gesù non lo aveva: e non lo voleva. Per questo non offre «cose» e, parlando alla folla, non si rivolge alle masse.

Il regno di Dio è un regno delle persone, in cui il prezzo dell’ingresso e il dono che si riceve sono il medesimo: la libertà. Nel Regno entra la libertà umana e il dono del Regno è la libertà divina.

Il testo che leggiamo, infatti, è il canto della libertà umana e di quella divina. Gesù offre il regno di Dio a tutti gli uomini. È il gesto della libertà divina che offre se stessa senza condizioni. Ma sa che non sarà accolta al medesimo modo. E paragona sé stesso a un seminatore: «Una parte del seme cadde sulla strada, e vennero gli uccelli e la divorarono. Un’altra parte cadde in un luogo sassoso: restò bruciata e, non avendo molte radici, si seccò. Un’altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta».

Che strano incurante seminatore, questo del Vangelo, che butta il seme con tanta distrazione. Ma questo è per Gesù non un racconto ma una parabola, un paradosso. Le circostanze comuni del reale quotidiano vengono modificate per produrre appunto un effetto inverosimile: è su questa inverosimiglianza che sta il senso della parabola.

Il seminatore trascurato e distratto è Dio stesso che offre a tutti gli uomini, buoni e cattivi, il suo seme, sé stesso. E il seme è Gesù stesso, il Figlio del Padre.

La distrazione del seminatore indica che Dio accoglie tutti, ogni uomo. Ma gli uomini non accolgono in modo eguale il seme divino, il dono del Padre. È la libertà umana che dà la misura del successo o dell’insuccesso di Dio, della fecondità o della sterilità del suo seme.

La libertà umana è indicata dalla differenza dei terreni, che danno frutto secondo la loro scelta. Solo Dio conosce il frutto del suo seme. Per questo, in altro punto del Vangelo, è detto «non giudicate e non sarete giudicati».

Compare così nella storia la libertà di ogni uomo, per piccolo, umiliato e infelice che sia, nel solo momento in cui essa è assoluta: innanzi a Dio.

Il più piccolo degli uomini diviene così portatore di una grandezza infinita: può dire «sì» o «no» al Creatore, all’Assoluto. La storia della cristianità, quindi dell’occidente, ha qui la sua radice.

Per quanto i frutti possono essere diversi e le colpe grandi, l’uomo della cristianità ha portato in sé e per il mondo il peso e la forza di questa parola.

 

 

23 Luglio 2023

Sedicesima domenica del tempo ordinario

Gesù si dimostra Messia facendoci assistere al male

 

Sap 12, 13.16-19 – Sal 86 – Rm 8, 26-27 – Mt 13, 24-43

In che cosa consiste il messianismo di Gesù? Per il giudaismo del suo tempo, fondato sui testi biblici, esso significava la restaurazione del regno del re Davide: e di un regno davidico senza limiti nello spazio e nel tempo. Fu la prima utopia, nella forma di una monarchia universale, legata al predominio di Israele.

Questo messianismo ha avuto una storia nella cristianità. A esso hanno fatto riferimento tutti i poteri politici cristiani. Può giustificarsi un potere cristiano se non in chiave di messianismo? Forse in questa trasposizione della cristianità come nuovo Israele sta la fondazione dell’universalismo occidentale e, quindi, dell’impero come sua forma politica.

Quale effetto storico e politico hanno avuto queste parabole del Regno, in apparenza così poco storiche e politiche. Come si fa a indurre dalle parole del Vangelo la storia della cristianità?

Il messianismo di Gesù non è politico, non tende cioè a esprimere uno stato. Egli vede il regno dei cieli come un buon seme sparso nel campo o come il fermento posto nella pasta: campo e pasta sono metafore del mondo. Il seme e il lievito crescono come una natura, non come un atto violento. Hanno un tempo di sviluppo pacifico, tutto positivo. Hanno tempo, il loro tempo: il loro tempo è quello della natura, non quello della volontà.

Dobbiamo dire allora che lo stato cristiano, sorto dalla conversione dell’imperatore romano, quell’incontro tra cristianesimo, ellenismo e romanità che è la radice dell’occidente, è un’aberrazione? Diciamo solo che non è il regno di Dio. Ma la prima, la cosa più facile che gli uomini potevano offrire al Cristo, era la loro forza militare. Il re dei franchi, Clodoveo,  divenuto cristiano, sentendo il racconto della passione di Gesù, esclamava: fossi stato io là, con i miei franchi! Era inevitabile che il re dei franchi dicesse così. Che cosa fa un pio re cristiano se non legittimarsi con il Cristo e offrire in cambio al Cristo la sua forza?

Assistiamo in Italia all’agonia di una delle ultime forme dello stato cristiano, il partito cristiano.  Gli inizi furono gloriosi, quel 18 aprile 1948 che è la vera data di fondazione della libertà in Italia, quando un popolo inerme si interpose tra l’occidente e l’Armata rossa e la sua propaggine italiana. Non glorioso il tramonto.

Ma il regno di Dio non ha questi ritmi. Esso cresce invisibilmente nella storia umana là dove vivono il desiderio della pienezza, l’amore per la libertà, l’amore per l’amore per gli uomini.

Il campo su cui cade il regno di Dio è il cuore di ogni uomo. Solo Dio sa come il suo Spirito scende su ognuno di noi, su ogni storia umana, su ogni volto umano. Mistica è sentire il seme divino crescere in noi, come cresce il bambino, frutto del seme dell’uomo, nel corpo della donna. La mistica significa essere coscienti del seme, sentirlo vivere, agitarsi in noi.

Il messianismo di Gesù è un messianismo della persona. Non è un’utopia. Pensarlo come utopia è stato uno dei disastri storici che la cristianità ha sopportato.

Il messianismo di Gesù è la persona che vive mano nella mano del Dio che vive in lei e inventa ogni giorno il suo agire: in attesa che Dio conchiuda in sé la storia temporale di ciascuno e del loro insieme.

Diciamo questo mentre in Bosnia  assistiamo a una guerra di religione, con la crudeltà con cui si combattono le guerre religiose, cruente anche se meno che le guerre ideologiche.

Ma «un uomo nemico ha fatto ciò» dice Gesù con riferimento alla più misteriosa, ma sempre fascinosa, figura del Nuovo Testamento: l’antagonista, Satana. Poteva Dio creare un mondo senza Satana, l’uomo nemico della parabola? Questa è la domanda a cui l’uomo, non sa dare risposta, innanzi alla immensità delle sue ferite.

 

 

30 Luglio 2023

Diciassettesima domenica del tempo ordinario

Le parole degli affari per far capire l’amore

 

1 Re 3, 5.7-12 – Sal 119 – Rm 8, 28-30 – Mt 13, 44-52

Il regno dei cieli, cioè il regno di Dio: questo è l’annuncio di Gesù quando egli percorre le strade di Galilea. Che cosa egli vuol dire con queste parole? Noi cristiani lo abbiamo imparato dal cristianesimo, siamo in grado di capire il parlare per allusioni che Gesù fa. Gesù dice che Dio può essere amato con vero amore, sino ad abbandonare per lui ogni cosa. Il regno di Dio è Dio stesso.

Che errore pensare a Gesù come colui che annunciava la fine del mondo! Egli ha vissuto l’amore di Dio sino a morirne: questa è la dimensione umana di Gesù. La fede ci illumina quando ci dice che solo Dio, il Figlio di Dio, poteva insegnare agli uomini ad amare Dio teneramente, come si ama una madre, un figlio, un amante. E molto di più. Con un amore dolce come la tenerezza umana e infuocato d’assoluto come è l’ardore divino. È questo sentimento che Gesù introduce nella storia umana.

Gesù ci ha insegnato ad amare Dio con l’amore di Dio e ogni uomo con il medesimo amore. È doloroso che poi la Chiesa abbia avuto tanto a uggia il sesso. Ma lo si comprende anche: perché in questa forma negativa ha voluto insegnare agli uomini che il pieno e supremo amato e amante è Dio stesso.

In questo Vangelo di Matteo Gesù parla in paradosso, in metafora: dice che Dio è come una perla preziosa o un tesoro. L’uomo vende quello che ha per acquistarlo. L’umanità di Gesù arriva al punto di insegnare l’amore di Dio usando il linguaggio degli affari: l’uomo ama le cose e il possesso di esse.

Per spiegare agli uomini l’assoluto dell’amore divino, Gesù ricorre a un sentimento che amore non è: nel linguaggio dei monaci egiziani, lo si potrebbe chiamare avarizia, volontà di possedere le cose. L’amore divino era così difficile a insegnarsi ai tempi di Nostro Signore che egli dovette ricorrere al possesso delle cose per esprimerlo. Egli non si rivolse per parlare di amor divino alla religione: non usò il linguaggio dell’adorazione, del sacro, della reverenza, del timor di Dio. Il lessico ebraico gli avrebbe offerto molte possibilità, la Bibbia ebraica è il più importante repertorio linguistico di religione che esista al mondo. Ma Gesù non scelse i Salmi per indicare ciò che egli voleva dire: ricorse all’esperienza quotidiana. Egli voleva che l’amore per Dio diventasse una realtà quotidiana, profana, non sacrale. Gesù è un mistico, un uomo per cui Dio è oggetto di esperienza, una esperienza che invade tutta la vita.

Nell’altra parabola che è in questo testo, Gesù dice che nel regno di Dio, cioè nella esperienza dell’amore di Dio, vi è posto per ogni genere di uomini: di quelli che fanno il bene e di quelli che fanno il male, di quelli che sanno amare, di quelli che sanno odiare. Il regno di Dio è simile a una rete che afferra ogni genere di pesci.

Alla fine della storia, Dio giudicherà le azioni. Ma potrà cancellare il suo amore, il suo desiderio di amare tanto i giusti quanto i peccatori? Il testo evangelico si conclude in questa domenica con l’annuncio del giudizio divino. Ma un amore così debordante, un bisogno così illimitato di essere amato possono conoscere altra misura di giudizio che non sia l’amore stesso?

 

 

6 Agosto 2023

Diciottesima domenica di quaresima

Sul crinale tra il Vecchio e il Nuovo Testamento

 

Gen 12, 1-4 – Sal 33 – 2 Tm 1, 8b-10 – Mt 17, 1-9

La seconda domenica di quaresima parla della trasfigurazione di Gesù innanzi a tre apostoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. La trasfigurazione è una anticipazione della risurrezione: nel corpo di Gesù appare la gloria divina, si aprono i cieli, compaiono Mosè ed Elia, le due figure fondatrici del popolo dell’alleanza, il popolo ebreo. Risuona la voce divina: «questi è il mio Figlio diletto, ascoltatelo».

I testi che parlano della vita comune o delle sofferenze di Gesù sono comprensibili a tutti. Infine il Vangelo fa parte della memoria dell’occidente, quasi del suo patrimonio genetico: dove il Vangelo parla dell’esperienza comune, esso ha una eco immediata. Ma in questo caso non si tratta di una esperienza comune, ma della risurrezione anticipata: il Padre è già nelle parole di Gesù, la divinità del Figlio traluce nel corpo umano dell’uomo di Nazaret. Le parole del Padre dicono al mondo che egli è il Messia d’Israele, figlio di Dio nel senso in cui lo era il re Davide. Lo splendore delle vesti e il brillare del volto ricordano quello che era già accaduto a Mosè, quando parlava con Dio sul Sinai. La trasfigurazione, che annuncia la risurrezione, vuole dire ai discepoli che Gesù è superiore a Mosè e a Elia, poiché essi «conversano con lui». Egli è la pienezza della rivelazione fatta a Israele. L’alto monte della trasfigurazione è il nuovo Sinai. Ma Dio non dà una legge: dice semplicemente che Gesù è la sua Parola. E l’uomo Gesù colui che dà la nuova legge al posto di Dio. Siamo sul crinale tra Vecchio e Nuovo Testamento. Tutto il Vecchio Testamento è presente, tutte le sue immagini, tutta la sua dottrina. Ma qui viene il passaggio fondamentale: il corpo di Gesù sostituisce le tavole di pietra della legge data a Mosè.

Il corpo: è nel corpo che compare la gloria divina, persino nelle vesti. Nella carne, nel sangue, nelle parole, nella fisicità di Gesù di Nazaret. Il popolo a cui era stato proibito di fare immagini di Dio si trova di fronte ora a questo eccesso corporale, a questo trasparire divino in un corpo umano, a questo donarsi all’autorevolezza di una parola umana. Non poteva continuare così? Non poteva Gesù trasfigurarsi innanzi a tutto il popolo, con un evento pubblico come nel racconto dell’Esodo Mosè era stato pubblico? Ma Gesù rifiuta la potenza del miracolo, respinge il rigoglio del sacro. L’ha considerata una tentazione di Satana. Il potere del sacro è ambiguo, i miracoli sono solo interruzioni, lampi nella notte della quotidianità. E mai essi convincono se non coloro che amano credere in essi.

Dopo tanto splendore, i loro occhi «non videro più nessuno se non Gesù solo». E Gesù parla del suo corpo. Ne annuncia la morte. Il corpo in cui è rifulsa la gloria farà sua la morte dello schiavo. Mosè aveva fatto una morte pubblica, nella commozione di un popolo, dopo aver visto la terra della promessa, narrava il libro dell’Esodo. Elia era stato assunto in cielo sul carro di fuoco, annunciava il libro dei Re. Gesù diceva la sua morte e accompagnava tale parola con l’annuncio della sua risurrezione. Nemmeno quella sarebbe stata pubblica, anche se, come dice Paolo, egli apparve a più di cinquecento fratelli. Ma di questa gloriosa manifestazione non c’è traccia nei Vangeli.

Centrati sulla vita storica di Gesù di Nazaret, i suoi discepoli, che erano pieni della gioia della risurrezione, la supposero come un dato conosciuto. Così essi lasciarono la risurrezione non all’evidenza notarile, ma alla fede dei secoli cristiani.

Il più solenne degli eventi, che modificò la storia, non è un evento pubblico: fu dato non a chi aveva occhi per vedere, ma a coloro che hanno il cuore per credere.

 

 

 

13 Agosto 2023

Diciannovesima domenica del tempo ordinario

Questo Vangelo ci disillude proprio

1 Re 19, 9a.11-13a – Sal 85 – Rm 9, 1-5 – Mt 14, 22-23

Questo Vangelo ci disillude. Gesù, apparentemente senza ragione, cammina sulle acque. Un segno, un miracolo, compiuto con discrezione. Ma nel ventesimo secolo, l’uomo con le sue forze ha compiuto segni molto maggiori. Che ci dice questa singolarità di Gesù, che ora sembra, nel racconto evangelico del ministero in Galilea, sovrabbondare di miracoli? Per capire questo brano, occorre inserirlo nel contesto in cui esso si pone e che è chiarito dal Vangelo di Giovanni. Gesù ha compiuto in quel giorno il gesto decisivo della sua storia: ha operato il miracolo della moltiplicazione dei pani, ha fatto il gesto che indica in lui il nuovo Mosè.

Mosè ha ottenuto per gli ebrei, esuli nel deserto nella fuga dall’Egitto, in cammino verso la terra di Canaan, da Dio un «cibo leggero», la manna. Gesù in persona dà ai suoi ascoltatori il pane, non con un gesto di intercessione, ma con un atto di autorità. Il significato è stato colto dagli ebrei, che vedono in esso un gesto di forza messianica: la potenza di Dio libererà il popolo dalla dominazione romana e dalla sventura. Per questo essi vogliono proclamare Gesù Messia, re unto di Israele, come ci dice il Vangelo secondo Giovanni. Gesù ha ottenuto in Galilea il riconoscimento più alto. Ma Dio ha rifiutato di dominare l’uomo con la sua potenza. E da quel momento Gesù decide di abbandonare la Galilea e di camminare verso Gerusalemme.

Il Vangelo di Luca dice che egli «indurì il suo volto» per andare nella città «che uccide i profeti». Il gesto lieve del camminare sulle acque è ancora una memoria di Mosè; non aveva egli, come racconta il libro dell’Esodo, fatto traversare agli ebrei il mare all’asciutto? Gesù fa questo ultimo miracolo di Galilea in modo discreto. Lo opera di notte, sul lago, davanti ai soli discepoli. Non è un gesto per le folle, è quasi un distacco dalle guarigioni miracolose, che hanno caratterizzato il ministero di Galilea.

Ma il centro del racconto non è il miracolo, è il naufragio di Pietro. Pietro può anch’egli camminare sulle acque, i poteri di Gesù sono dunque comunicabili. Ma egli comincia poco dopo a essere sommerso e invoca, nel buio della notte lacustre, l’aiuto di Gesù. Gesù lo trae a sé e lo rimprovera. Pietro ha avuto poca fede.

Fede, questa parola pervade a questo punto il lessico evangelico. Di fede gli apostoli avranno bisogno, quando essi saranno dispersi e Gesù crocifisso. In quell’ora non servono i miracoli: la potenza divina giace immota e silenziosa. Rispetta l’ora del principe di questo mondo, di Satana. Contro il potere delle tenebre, ben più oscure della notte di Galilea, gli apostoli avranno solo l’arma della fede. È essa che impedirà di precipitare nella notte dello spirito, quando le potenze demoniache saranno lanciate contro la giovane fede della Chiesa.

Il miracolo sconcertante del cammino sulle acque, che appare un gesto della divina potenza fantasiosa, corrisponde a una intenzione diversa. È un insegnamento: la fede consente di camminare sulle acque e nelle tenebre. È un messaggio di Gesù a Pietro, la figura della Chiesa ventura. Questo brano evangelico, nella sua testura delicata e paradossale, trasmette un insegnamento valido in giorni di tenebra come quelli che viviamo oggi nel nostro paese.

 

 

 

15 agosto 2023

Assunzione della vergine Maria

E la carne umana diventa divinità

 

Ap  11, 19a; 12,1-6a.10 – Sal 45 – 1 Cor 15, 20-26 – Lc 1, 39-56

Il 15 agosto è la festa dell’assunzione di Maria. Pochi afferreranno il senso di questa solenne memoria che da secoli definisce il ferragosto: la feria d’agosto. Come a Natale, celebriamo quello che più non conosciamo.

Natale e Assunta sono feste del corpo umano. A Natale celebriamo Dio che si è fatto carne, all’Assunta celebriamo la carne umana elevata alla divinità, fatta partecipe della sua essenziale incorruttibilità. Queste parole hanno un senso per la fede, le due feste, il Natale e l’Assunta indicano l’assioma fondamentale del cristianesimo: Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio.

Di questo linguaggio, a cui il tempo della ragione ha tolto significato, è rimasto il fatto che Natale e l’Assunta sono feste del corpo umano: l’una del corpo umano nato, l’altra del corpo umano maturo. Una è la festa della famiglia, l’altra quella delle vacanze.

Non ci sono feste simili nelle altre religioni: le feste riguardano sempre un gesto divino. Ma la secolarizzazione ha fatto del Natale la festa del bambino, dell’Assunta la festa dell’adulto.

La festa del corpo umano è ciò che rimane nella memoria collettiva del Natale e dell’Assunta. Qualcosa dell’originario riferimento al corpo è rimasto.

Anche se ferragosto è il giorno dell’Assunta ed è festa per questo, è difficile credere che questo dogma parli alla mente e al cuore di quelli che pur lo professano e che oggi, nel mondo cattolico, ascolteranno le letture bibliche della Messa.

Eppure la Madonna non sarebbe quello che è nella storia del mondo se non fosse l’annuncio che tutto il mondo un giorno risplenderà della gloria di Dio. E i morti risorgeranno.

E ognuno potrà capire perché tanti innocenti abbiano sofferto tanto e tanti colpevoli abbiano patito ben più di quello che le colpe meritassero. Un giorno il mondo per la fede cristiana, sarà «Dio tutto in tutti»: e tutto diventerà assunzione.

In Liguria, a Santo Stefano d’Aveto, vi è una singolare immagine dell’Assunta. È una copia di quella che la Vergine dal volto indio impresse nel 1531 sul grembiule di un giovane maya: la Madonna di Guadalupe, dal volto messicano, dal nome spagnolo di fattura araba. Quel santuario è oggi certamente il più grande santuario mariano che esiste nel mondo.

Quell’immagine è nel paesino ligure perché una copia di essa venne data da Carlo V ad Andrea Doria ed essa fu il vessillo cristiano durante la battaglia di Lepanto del 1575.  Ma non sempre si sa che quella Madonna è la «donna vestita di sole» del capitolo 12 dell’Apocalisse, che è la figura della Chiesa negli ultimi tempi. Mai, prima del 1531, la Madonna era stata venerata in quella forma nella Chiesa.

Forse gli eventi dei nostri giorni ci dicono che i «tempi ultimi» della storia umana sono oggi più vicini che non nel giorno dell’apparizione messicana. La festa religiosa e la realtà storica sono sempre nel cristianesimo un fatto intrecciato.

 

 

 

20 Agosto 2023

Ventesima domenica del tempo ordinario

Il travaglio umano dell’indecisione e della scelta

 

Is 56, 1.6-7 – Sal 67 – Rm 11, 13-15.29-32 – Mt 15, 21-28

Questo Vangelo indica l’evoluzione del ministero di Gesù. All’inizio esso è stato rivolto «alle pecore perdute della casa di Israele», come egli dice in questo Vangelo. Poi qualcosa è mutato. Esiste una dimensione umana in Gesù, un pensiero, una volontà. Il Verbo è la sua realtà ultima, ma ciò non toglie che Gesù conosca le tenebre e l’angoscia.

Il Vangelo è credibile proprio perché l’umanità di Gesù è piena. Se avessimo avuto il Risorto, senza i Vangeli, se non avessimo conosciuto Gesù «secondo la carne», che Paolo non conosceva, il cristianesimo sarebbe diverso da quello che è. Gesù sarebbe stato pensato solo come un Dio comparso nella storia.

Se invece l’umanità di Gesù è completa, se Gesù è veramente uomo perché il Verbo lo abita, come Dio, nel mistero, lo avvolge in esso, allora anche la coscienza di Gesù nella storia è una vera coscienza umana: conosce il travaglio della indecisione, della scelta. E dell’opportunità. Forse l’episodio che leggiamo è proprio quello che registra una svolta nella coscienza di Gesù.

La scena si svolge in una terra di confine, dove abitavano i siro-fenici. Gesù usciva già dai confini dell’ebreità. E una donna lo invoca con un titolo ebreo, «figlio di Davide», per chiedergli di liberare una figlia dal demonio. E Gesù, alle richieste dei discepoli di accontentarla per toglierla di mezzo, risponde, appunto, di esser rivolto solo ai peccatori di Israele. È una ferma intenzione, contraddetta però dal fatto che, del mondo ebraico, egli aveva già superato i confini materiali. E la sua risposta alla donna è ancora più brusca di quella ai discepoli. Egli la respinge: «non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini». Una parola durissima, unica nel suo genere nei Vangeli. Ma la risposta della donna è più forte del rigetto: «Anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadano dal tavolo dei loro padroni». E qui avviene il mutamento delle posizioni di Gesù, la sua «conversione» ai pagani. E risponde: «Donna, è grande la tua fede! Ti sia fatto come desideri».

Desiderio: l’ardente desiderio ha mostrato a Gesù il cuore dei pagani. In esso vi era la mancanza della grandezza del Dio di Israele. E la parola che Gesù rivolge alla donna è l’elogio della sua fede. È la parola centrale, la fede in Gesù, che corre in tutti i Vangeli. Qui sull’uomo scende l’autorità del Verbo che lo abita. Egli ritiene che l’adesione a lui sia una adesione assoluta: e ciò significa il termine fede.

Gli ebrei ricordavano Mosè e in lui si ricordavano di Dio: Gesù invece pone la fede in lui come la sostituzione di quella memoria, come l’inglobamento di essa nella professione di fede in lui.

La fede in Gesù consente l’ammissione dei pagani nel Regno: Gesù è il Regno. Egli afferrò in quel momento più riccamente come il suo compito contenesse e sostituisse la rivelazione fatta ad Israele. Egli poteva trattare i pagani come figli del Regno perché avevano il requisito necessario per diventare cittadini del Regno: la fede in lui.

 

 

 

27 Agosto 2023

Ventunesima domenica del tempo ordinario

Quale primato petrino per il terzo millennio?

 

Is 22, 19-23 – Sal 138 – Rm 11, 33-36 – Mt 16, 13-20

Quante guerre intra-cristiane sono corse attorno a questa frase di Gesù nel Vangelo di Matteo: «Tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia Chiesa». L’esegesi non può da sola sostenere il peso del senso corrente che il primato petrino ha nella Chiesa cattolica; e tuttavia la storia della cristianità dà a questo testo un significato maggiore di quello che esso ha di per sé nel Vangelo di Matteo. Il nesso tra questo testo e la tradizione dell’episcopato romano hanno dato forma storica alla Chiesa.

Senza il primato petrino e romano, per quanto il giudizio storico possa stabilire, la Chiesa di Cristo sarebbe divenuta la Chiesa di Cesare. Ovunque il primato petrino non si è imposto, è nato il dominio dello stato sul cristianesimo nella forma del sacro impero o dello stato cristiano. Questo è stato vero nella cristianità europea, non lo è in quella singolare terra di Cristo che sono gli Stati Uniti d’America. Negli USA la cristianità è divenuta una comunità di individui unita dal comune riferimento alla Bibbia. E lo stesso va gradualmente accadendo nell’America latina.

Il terzo millennio vedrà un deperimento della figura del papa? Il papa romano, come oggi lo conosciamo, è soprattutto una creazione del secondo millennio cristiano: san Gregorio VII  liberò la Chiesa romana dalla soggezione al potere imperiale e salvò così nella sua radice la novità cristiana, impedendo che essa fosse assorbita dal potere divino dei re.

Avremo nel terzo millennio una gestione meno istituzionale del papato? Le condizioni storiche hanno sempre determinato la figura della cristianità, la forma spirituale che ha inventato il valore e il senso della storia.

Se pensiamo a un nuovo volto del papato, forse l’implicito del testo di Matteo 16, che stabilisce il primato, ci dice qualcosa del suo futuro. Pietro ottiene il primato sulla Chiesa in ragione del primato della rivelazione interiore del Padre: «Beato perché non la carne e il sangue ti hanno rivelato il Figlio, ma il Padre che è nei cieli».

Il segreto ultimo del cristianesimo è il primato del cuore, del Dio che si rivela nel segreto e conduce le azioni di colui che guida. Tutti saranno ammaestrati direttamente da Dio: così Pietro negli Atti degli apostoli spiega la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa nascente. È questa pienezza dello Spirito il dono di Pentecoste.

In tempi di ferro, il primato petrino è stato di ferro: e si è addolcito in tempi in cui la persona umana e la ragione umana cominciavano a crescere. Il tempo di una umanità adulta è quello di una Chiesa in cui risplenda la religione dello Spirito del Signore: e, secondo la parola di Paolo, «dove è lo Spirito del Signore ivi è la libertà».

Il papato romano ha impedito nel tempo dei re che la Chiesa divenisse proprietà del re. Troverà una forma perché il ministero petrino serbi la libertà dei figli di Dio.

 

 

 

3 Settembre 2023

Ventiduesima domenica del tempo ordinario

Donazione totale per il Regno

 

Ger 20, 7-9 – Sal 63 – Rm 12, 1-2 – Mt 16, 21-27

Quando Gesù realizza che il tempo della sua passione è giunto? Il Figlio Unigenito, che costituisce la sua persona, non impedisce all’uomo Gesù di apprendere dal tempo e dalla storia. E, forse fin dall’inizio, il testo del Servo di YHWH nel libro del profeta Isaia avrà lavorato nel suo processo di autocoscienza umana. E, a un certo momento, egli si è reso conto che i miracoli di misericordia, da lui compiuti, commuovevano per un attimo le folle, ma esse non andavano oltre lo straordinario. Tra quello che egli sapeva di essere e quello che le folle potevano capire di lui, c’era un abisso. Esso sarebbe stato colmato dalla potenza sacerdotale e da quella romana. Dei romani non parla, nell’annuncio che fa ai discepoli: il rigetto del Messia è un atto di Israele. Per questo Gesù nomina «gli anziani, i sommi sacerdoti, gli scribi».

Gli evangelisti mettono tutti in luce il carattere ebraico del processo contro Gesù, nonostante la condanna sia romana, perché è per essi rilevante che il rigetto del Messia sia compiuto da Israele. Pietro non è in grado di accettare quel che dice Gesù. Sembra a lui un atto di follia o di irreligione pensare che una tal cosa possa capitare al Messia di Israele in Israele.

Poco prima di questo episodio, l’evangelista riferisce la solenne proclamazione fatta da Pietro della messianicità di Gesù: Gesù, egli ha detto, è il Messia, l’Unto, il Cristo. Non può immaginare che gli ebrei uccidano il loro Messia. È il suo sentimento religioso che protesta contro questo fatto, la sua convinzione di vero israelita, che ha fede nella salvezza di Israele che il Messia davidico deve portare con sé. È appunto perché si tratta di una convinzione religiosa che Gesù reagisce in questo modo.

Il profeta sa che gli ebrei possono disconoscere l’inviato di Dio: «Gerusalemme che uccidi profeti», dirà Gesù contemplando Gerusalemme e profetizzandone la distruzione. Non è stato Geremia a profetizzare contro il tempio di Salomone, proclamandone la violabilità? Ma Gesù conosce i profeti, il pescatore di Galilea è figlio delle tradizioni orali, delle prediche sinagogali, delle convinzioni comuni.

Gesù lo chiama Satana per questo, come cioè colui che parla innanzi a Dio contro Dio. E all’uomo religioso ebreo, rivolge una parola più dura: «Tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Gesù si stacca dalla convinzione di Pietro che Israele non possa solennemente, ufficialmente, mettere a morte il Messia.

E Gesù allora, rivolgendosi ai discepoli, annuncia che essi stessi debbono essere disposti a portare la croce. Pensava Gesù alla sua croce? O voleva chiedere di seguirlo con la remissività del condannato a morte che porta la sua croce? Ambedue i sensi sono possibili e compatibili. E la differenza tra le speranze messianiche ebraiche e ciò che portava lui, Gesù, ai suoi discepoli: «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà: ma chi perderà la vita per causa mia la troverà».

Si riferisce Gesù al tempo o all’eternità? Ad ambedue. Ma certamente con accento sull’eterno. Infatti, è detto poco dopo che «il Figlio dell’uomo, quando verrà nella gloria del Padre, renderà a ciascuno secondo le sue opere». Ma può essere che Gesù sottolinei anche la protezione che il Regno offre nella vita temporale. Come è detto in un altro passo del Vangelo: «Cercate il regno di Dio e la sua giustizia e tutte le altre cose vi saranno date in aggiunta». E tuttavia il dono di sé al Regno può comportare persecuzione e odio, e, quindi, portare veramente la propria croce.

Gesù chiede che la donazione al Regno sia totale. Per questo essa comporta anche l’offerta della vita e la speranza riposta nella fedeltà di Dio nel tempo eterno. Gesù sa di camminare per questa via del dono totale, che rimette a Dio la sorte. Ma sa anche che la sua è ormai segnata.

 

 

 

10 Settembre 2023

Ventitreesima domenica del tempo ordinario

Chi prega per il Padre fa il gesto più alto

 

Ez 33, 7-9 – Sal 95 – Rm 13, 8-10 – Mt 18, 15-20

I testi evangelici di questa lettura domenicale non sono lo svolgimento di un filo logico. Sono stati connessi dall’evangelista perché hanno un riferimento al medesimo tema: la comunità dei discepoli. Nessuno sostiene più la tesi di un Gesù predicatore della fine del mondo e, quindi, non disposto a dare regole per la vita nel tempo. Gesù vuole invece dare regole, ma sono le regole della presenza di Dio in mezzo ai discepoli.

Questo è il Regno per Gesù: un luogo in cui la fraternità umana avviene come partecipazione alla vita di Dio, una comunità in cui Dio è di casa.

Forse il testo più esplicito dei tre frammenti di cui la lettura si compone è l’ultimo: «dove sono due e tre uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro». Questa presenza non è una presenza solamente umana. Sarebbe in tal caso affidata alla memoria, al ricordo. Sarebbe una metafora. Gesù indica il suo modo divino di essere presente, la sua reale esistenza divina. Lo si vede con chiarezza dal testo che precede immediatamente queste parole: «Se due o tre di voi si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio, che è nei cieli, la concederà». E questa sicurezza nell’esaudimento divino è dovuta appunto al fatto che Gesù è realmente presente e realmente prega con i cristiani.

Il cristiano si domanderà se è veramente così. Oggi se lo domanda con più insistenza. Vi è, per esempio, una richiesta di beni temporali, come la salute: le guarigioni divengono in molti gruppi cristiani una dimensione abituale, specie in Africa e in America latina, ma anche in Europa. In questo vi è un fatto positivo: la scoperta della importanza della preghiera, anche di quella più semplice, che domanda non grazie spirituali, ma cose temporali. La preghiera libera le braccia di Dio.

Quest’espressione può sembrare impropria, ma è di Charles Péguy,  questo grande poeta mistico a cui dobbiamo qualcuna delle più belle espressioni cristiane del secolo. Péguy la mette in bocca a Dio Padre che non può soccorrere il Figlio crocifisso, non può seppellirlo nemmeno perché, dice, «ho le braccia incrociate da questa avventura». L’avventura è la creazione del mondo. Quindi della libertà delle cose e degli uomini. La creazione è reale e la sua realtà è un limite per il Creatore. La preghiera apre nella creazione uno spazio al Creatore, lo libera dalla «avventura» del rispetto alla causalità della cosa e alla libertà della persona. Per questo si deve tentare di aprire la via al Dio che ci ama, ci vuole soccorrere, esaudire.

Pregare vuol dire limitare la potenza della creazione sul Creatore e aumentare la libertà del Creatore nella creazione, permettendogli di manifestarsi come Padre. «Padre nostro, dacci oggi il nostro pane quotidiano». Questa regola della preghiera è la regola prima che Gesù dà alla comunità.

Occorre pregare: pregare per il mondo, per chi conosciamo, per chi non conosciamo, per chi soffre, per chi fa soffrire. Siamo un popolo sacerdotale, un popolo dell’intercessione, che conduce il Padre a rivelarsi come Padre.

Negli anni passati la preghiera è divenuta troppo collettiva, fredda e astratta. Ora impariamo di nuovo che ogni persona, che prega il Signore, fa il gesto più alto, e lo fa in quanto persona, perché il Signore è in lui. E se unisce due o tre persone nell’invocazione, allora il Cristo appare più forte, il suo grido si unisce al grido delle persone, il gemito dello Spirito si fa più incessante. La preghiera è l’atto dell’onnipotenza umana.

 

 

17 Settembre 2023

Ventiquattresima domenica del tempo ordinario

E se l’amore di Dio non si può conciliare con l’eterno inferno?

 

Sir 27,30-28,9 – Sal 103 – Rm 14, 7-9 – Mt 18, 21-35

Il perdono, quanto abbiamo sentito parlare di perdono! È nato persino il termine astratto e negativo di «perdonismo». Il testo del Vangelo che leggiamo in questa domenica è all’origine del tema del perdono. Gesù dice a Pietro che deve perdonare «settanta volte sette» il suo avversario. E cioè sempre.

È questo un precetto morale, una indicazione per il comportamento? Non precisamente. Vi è nel Vangelo un altro testo circa il comportamento in caso di offesa: e non è questo, non dà un comandamento assoluto. Esso dice: se il tuo fratello pecca contro di te, dillo ad altri fratelli, poi all’assemblea dei fedeli e poi rompi i rapporti di fraternità con lui. Su questo testo, la teologia ha fondato il diritto della gerarchia ecclesiastica alla scomunica: un gesto poco perdonante, soprattutto se, come in casi di eresia e affini, comportava il rogo. Questo brano non ha l’idea di dare una regola di comportamento, individuale o collettiva. Vuol dire «qualcosa» su Dio: vuol dire che Dio perdona sempre. E la nostra perfezione consiste nell’imitarlo.

Tuttavia questo è un consiglio mistico, non è un precetto morale. La mistica riguarda il rapporto umano divino, sia con Dio che con gli altri uomini: la mistica è nella storia, ma è oltre la storia. La morale, no: è nella storia e vi rimane tutta. Essa deve governare la prassi dei singoli e delle comunità, tradursi dunque in responsabilità. I termini etici e politici non possono prendere questo testo come riferimento.

In parabola, Gesù vuol dirci che Dio non condanna, ma perdona. È un insegnamento su Dio. È difficile per il mondo, tutto il mondo religioso, per cui il divino è colui che colpisce: secondo capriccio o destino nel mondo pagano, secondo giustizia e legge nel mondo della Bibbia. Ma infine come un potere temibile.

Un Dio che perdona, un Dio della compassione non induce il rispetto: e del resto, se Dio perdona, chi punirà coloro che hanno fatto male agli altri uomini, uccidendoli, violandoli, umiliandoli, coloro che hanno fatto del dominio dell’uomo sull’uomo il gusto della loro vita? Può il Signore della giustizia andare oltre la sanzione, oltre la pena? Anche Gesù conosce il giudizio divino, il luogo «dove è pianto e stridore di denti».

Come conciliare l’inferno eterno con il Dio che è assolutamente perdono, per essenza misericordia? E d’altro lato: quale uomo vorrebbe per il suo tormentatore un tormento eterno? Nessuno. L’eterno non è una misura umana.

Diciamo che questo testo ci pone innanzi a tutte le difficoltà della fede, che sono molte. La fede ci dice che Dio è per essenza amore: e l’amore per essenza comprende la giustizia, compresa quella penale. Ma nell’amore infinito ogni giustizia finita si comprende e si cancella. Possiamo dire a un tempo che Dio è sempre giusto e che perdona sempre.

La conciliazione di queste parole è oltre la ragione. È il mistero di Dio: Gesù ha scelto una parabola per dirlo, cioè un paragone. Lo ha detto in forma velata. Gesù parla in parabole perché non è facile all’uomo comprendere il mistero divino.

Per questo anche i predicatori si limitano abitualmente a dire solo un lato della verità. Però risolvere questo testo in una generica esortazione al perdono è dimenticare che Gesù è a un tempo fuoco e Regno.

Non si può risolvere il tema della giustizia e dell’inferno nel silenzio, anche se si può dire che la condanna non è mai la realtà essenziale di un Dio che è per essenza amore.

 

 

 

26 Settembre 2023

Venticinquesima domenica del tempo ordinario

L’eterno che è in noi va oltre la giustizia

 

Is 55, 6-9 – Sal 145 – Fil 1, 20-27a – Mt 20, 1-16

Gesù vuol dare di Dio un altro concetto di quello di cui dispone il lettore della Bibbia ebraica. Vuol dire che Dio è amore: e che l’amore è ingiusto, perché ama anche chi non lo merita. Per questo usa un paragone: un proprietario di una vigna cerca di buon mattino degli operai per lavorare nella sua vigna. Il prezzo convenuto è un denaro.

Il padrone va altre tre volte al mercato, prende ancora operai, non concorda il prezzo. Alla fine dà a tutti la medesima somma: un denaro. Ma quelli che hanno lavorato tutto il giorno si indignano: noi abbiamo sopportato il peso della fatica e del caldo, ma gli ultimi hanno lavorato solo un’ora. Che giustizia è questa?

Giustizia non è, dice il padrone: io sono stato giusto con voi, vi ho dato il pattuito, agli altri ho dato secondo la mia generosità.

Noi non potremmo approvare il padrone della vigna. E neanche Gesù ce lo dà per modello. La parabola è un racconto impossibile, che vuole mettere in luce una verità, non detta. Gesù vuole includere tutti nel suo Regno, non solo gli ebrei, quelli che hanno ricevuto la promessa, in questo caso l’accordo per un denaro, ma anche i pagani, quelli che non hanno ottenuto promessa alcuna.

Nel nostro linguaggio, che riprende un altro testo del Vangelo e dello stesso Antico Testamento, possiamo dire: il Regno non è fatto solo per i giusti, ma anche per i peccatori. È fatto per coloro che credono in Dio e per coloro che non vi credono: è fatto per quelli che amano l’uomo e per quelli che non lo amano.

Dio è fatto così, e per questo il Dio che Gesù ha rivelato è un mistero per gli uomini: specialmente per tutti quelli che hanno ascoltato l’invito divino ad amare Dio e il prossimo e che vedono in questa parabola sconvolgente il Regno dato a coloro che non hanno fatto queste cose. È vero che tutti questi operai della vigna hanno lavorato, magari per una sola ora. Ma vi è un uomo che non abbia avuto un momento di fede, una oncia di amore? Vi è qualcuno che possa essere definitivamente escluso dal regno di Dio? Noi penseremmo di sì.

I giornali ci hanno parlato di coloro che uccidono i bambini brasiliani  per cavare loro gli occhi. E la Bosnia  ci ha offerto un tale campionario di violenza umana che vorremmo essere sicuri ci fosse una giustizia divina, magari oltre i confini della morte. E Dio farà in modo che così sia, perché la misericordia contiene in sé anche la giustizia. Ma Gesù ci dice che Dio è assai diverso da noi, che la nostra giustizia non lo misura: Dio ha una misura più alta della giustizia.

L’ora di Dio è il tempo eterno, quello che è oltre noi, che non possiamo misurare con la ragione, ma che è la sola misura del nostro desiderio e della nostra speranza. L’eterno che è in noi è una misura anch’essa più alta della nostra ragione e della nostra giustizia: è espresso dall’idea di amore, che per ogni uomo è un’idea senza confini, come l’eternità è senza limiti di tempo. Nell’eterno l’ultima parola è l’amore: per questo, conclude il Vangelo, gli ultimi saranno i primi. Dio dona a tutti sé stesso, la pura eternità, per puro amore. Questa è la giustizia divina, che Gesù ci insegna con questo paradossale racconto.

 

 

 

 

 

Un commento su “Commenti al Vangelo della Domenica”

  • La vostra iniziativa di pubblicare i commenti di Gianni ai vangeli della domenica è molto bella e mi auguro che sia programmata a tempo indeterminato.

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