Come è possibile riassumere il significato di una vita in un articolo di poche pagine? Ognuno di noi e’ un libro di esperienze, di scelte e di emozioni difficilmente componibili in qualche migliaio di battute. Ma don Gianni vi è riuscito in questo testo che potrete leggere e ponderare frase per frase. Egli scelse di raccontarsi in un contributo culturale inviato ad il Foglio nel lontano 2007, un testo che si confonde nella sua prolifica produzione di una vita, ma che racchiude in sé le corde spirituali, politiche e culturali di un uomo che ha attraversato il secolo delle utopie avendo come faro il rapporto mistico cristiano con Dio.

Le sue battaglie spirituali vissute nel terreno della politica, come luogo della scelta della storia dei popoli dell’umanità, lette nel senno di poi, acquisiscono un sapore profetico che scorgono il punto più profondo delle questioni fondamentali del nostro quotidiano; ma il suo “intelligere” non sarebbe bastato se non avesse tessuto quell’intimo rapporto con Dio nella preghiera che sfociò anche in locuzioni spirituali con il “Piano di sopra”, come egli soleva nominare.

Don Gianni era questo, un uomo timorato di Dio che si batteva per salvare la sua circostanza, come Ortega y Gasset la intese, che lo portò ad essere parte delle alte sfere della classe politica che governò la Repubblica italiana fin dai suoi albori senza, però, esserne intimamente coinvolto nel potere, che scelse la Chiesa come suo luogo di appartenenza inteso come corpo mistico di Cristo nella storia del mondo senza essere omogeneo all’approccio spesso immanente di un Cattolicesimo che cercava un compromesso con il moderno. Essere nelle cose ed al contempo non esserci, è il paradosso che ha scandito le battaglie spirituali nella vita di don Gianni, vissute in prima persona, in difesa di quella divino umanità dell’uomo che Gesù Cristo ci ha proposto nei suoi insegnamenti e nella la Passione della Croce. Ed ecco che l’anima diventa la chiave di difesa del divinoumanesimo del cristiano, fuoco nel motore delle battaglie e scelte spirituali, politiche e culturali di don Gianni, nel tempo in cui viene emarginata in virtù di un positivismo, di un materialismo imperanti. L’anima si annulla nell’utopia di un ateismo sostitutivo come il comunismo, l’evento politico primario che ha contraddistinto il Novecento, e viene sopraffatta poi dal biologismo che si propone nel nuovo millennio e che fonda le proprie radici nel darwinismo e nella cultura nazista.

Don Gianni, in questo articolo, fa un viaggio nella storia degli ultimi cento anni offrendoci una speculazione culturale, mistica e politica che oggi diviene un contributo per comprendere quanto importante sia scegliere Cristo in un tempo in cui le utopie hanno lasciato il passo ad un mondo spesso distopico, foriero di nuove forme di schiavitù per l’intera umanità. Buona lettura    (Alessandro Gianmoena)

Quando un cristiano scrive pensieri sulla fine della vita e sull’oltre la morte, è guidato dalla fede della Chiesa. Ma talvolta si avverte che elementi decisivi di questa fede sono stati di fatto rimossi: tra questi il primo è quello di anima spirituale e immortale, diversa per sua natura dal corpo e capace di immortalità. Questo concetto dell’anima è considerato un frutto dell’ellenizzazione del Cristianesimo, ma l’anima di Platone, quella del Fedone, non è una persona né un soggetto. È solamente una natura. Il concetto di anima usato dal Cristianesimo non è tributario della filosofia greca.

Per i cristiani, sin dalle origini, la vita cristiana è vita con Cristo e partecipa della sua divinoumanità. Non è il concetto filosofico di anima a venire in primo piano, ma è la concezione della divinizzazione del cristiano per il suo inserimento nel corpo di Cristo. Ed è l’immagine di Cristo come persona che si proietta sul cristiano, sia nella sua dimensione di Figlio unigenito, sia in quella della sua perfetta umanità. Proprio il dogma cristologico è la chiave della comprensione dell’anima cristiana, che è una proiezione della persona di Cristo su ogni cristiano. Ed è quindi interamente persona, legata alle sue azioni e alle sue responsabilità, vera causa della sua perdizione o salvezza eterna.

Non è un caso che sia l’Apocalisse, il libro dell’escatologia cristiana per eccellenza, che annunzia la presenza dei cristiani che hanno compiuto le opere della fede nella città di Dio; in quello che diciamo il paradiso. E soprattutto la resurrezione della carne non è nell’Apocalisse una semplice restituzione alla vita umana come nell’escatologia ebraica e in quella musulmana. Quello che viene annunciato nell’Apocalisse è che la resurrezione non è una restaurazione del mondo, ma una divinizzazione dell’uomo e del mondo. La discesa sulla terra di Gerusalemme celeste. Per questo l’anima umana ha acquisito il carattere di persona e di causa, non solo di essenza di natura come nel pensiero greco. E’ questa concezione della divinoumanità del cristiano, a immagine di quella di Cristo, che ha fatto estendere a ogni uomo un’anima immortale per creatura e quindi di per sé capace, come spirito, di ricevere in sé il Dio spirito.

Con la riforma liturgica di Paolo VI, il termine anima è sparito dalla liturgia. E questo è il più grave problema per il cristiano. La sparizione dell’uso liturgico significa che l’anima non fa più parte della dottrina cristiana, se essa può essere così facilmente allontanata dalla preghiera della Chiesa. Il termine anima compare nella liturgia dei defunti solo quando viene data la benedizione alla salma che abbandona la Chiesa. Prima non compare mai. E l’anima è diventata una domanda censurata, di cui è bene non parlare, perché, se fa parte della memoria cristiana, non fa parte della sua liturgia ed è ancor più radicalmente assente dalla sua teologia. La resurrezione della carne, come è nel mondo ebraico e nel mondo musulmano, è un fatto collettivo che riguarda il popolo dei credenti ebrei nel mondo ebraico e i combattenti per la fede nel mondo musulmano e ha un carattere totalmente immanente alla storia.

L’escatologia cristiana, che è l’emersione di Dio nell’universo come sua ultima realtà, è la conseguenza ultima della Incarnazione del Figlio di Dio. La persona nasce omogeneamente alla divinoumanità del Cristo.

L’anima ha cominciato a morire con il mondo moderno, quando compare al suo posto la ragione cartesiana in continuità con l’avverroismo latino, che aveva pensato un unico intelletto per tutti gli uomini capaci di trasformava i particolari in universali.

Ma il moderno acquista davvero valore storico quando crea un soggetto storico. E ciò avviene con la nascita della nazione francese e la rivoluzione. La nazione diviene il soggetto della storia e perde qui il suo carattere personale. Da quel momento esiste la storia universale e un soggetto universale; è quello che Hegel renderà sistematico come il pensiero della immanenza del divino alla storia del mondo e quindi di una divinizzazione interamente immanente alla storia, in cui viene così interamente risolta tutta l’escatologia cristiana. Il moderno inizia con la morte della persona divenuta funzione della nazione o della rivoluzione ma, in ogni caso è risolta in categorie collettive in cui non c’è più spazio per la persona. Il moderno giunge alla sua ultima conseguenza della negazione della persona e di affermazione dell’immanenza del divino nella storia, sia con il nazismo che con il comunismo. Nel primo si annunzia il biologismo, creato a immagine del darwinismo che preverrà in seguito nella cultura occidentale; nel comunismo si compie in perfezione la totalità del moderno, cioè la radicale eliminazione della persona umana come soggetto di diritti.

Con il Vaticano secondo avviene una recezione parziale del soggetto storico moderno nella lettura della Chiesa. La differenza tra lo schema conciliare preparatorio redatto dal padre Sebastiano Tromp si fonda, come affermato con grande vigore da Pio XII, della Chiesa corpo di Cristo e quindi riassunta nella divinoumanità.

Il Vaticano I aveva definito la Chiesa a un tempo come segno e come mistero. Come segno era rivolto alle nazioni ma come mistero divino umano poteva essere compresa soltanto nella fede.

La definizione della Chiesa della Lumen Gentium definisce la Chiesa come popolo di Dio, intendendo dire con ciò che essa è un soggetto storico, il cui compito è agire nella storia come forma di guida della coscienza mondiale in quanto (secondo la formula di Paolo VI) è “esperta in umanità”. E’ singolare che questo accada perché la maggior conoscenza dei padri della Chiesa aveva messo fortemente l’accento sulla divinoumanità.

Non è un caso che il Vaticano II abbia evitato ogni condanna del comunismo, perché la Chiesa si poneva come l’alternativa alla rivoluzione sul piano della politica e della storia. Ciò la conduceva a comprendere il fatto che il comunismo sovietico era, come la Chiesa, una religione e una prassi, che la sua perfetta antitesi era anche una perfetta simmetria. Quindi l’azione storica e l’immanenza del soggetto nella storia divenne un segno della concezione che filtrava dal Concilio e che veniva operata dai teologi e poi dai liturgisti.

Il comunismo fu oggetto di letture concorrenti ed omologhe del Cristianesimo, come l’opzione per i poveri e la teologia della liberazione. E’ singolare che anche i movimenti ecclesiali che nascono dopo il Concilio riprendano i temi della vita spirituale, ma fondandoli su una categoria storica: il gruppo stesso come sintesi dell’immanenza e della trascendenza. La mistica del gruppo diveniva mistica dell’appartenenza, veicolo della fede di ciascuno nella comunanza con tutti i membri del gruppo.

Il cristiano prima del Concilio era solo davanti al suo Dio e, dopo il Concilio, le forme più ortodosse videro la presenza del singolo in Dio come presenza della compagnia, in qualunque forma declinata.

Con la fine del comunismo finisce il moderno come dominanza della storia. E al posto della nazione e della rivoluzione vi sono la scienza e la tecnica. Al posto dell’anima cristiana e della ragione moderna vi è il cervello. Così diviene inevitabile che la storia venga concepita come un capitolo dell’evoluzione senza che ciò possa dare alcuna certezza perché l’evoluzione può fallire. In forma di crisi ecologica, di cambiamento climatico, di insufficienza dell’energia, nasce sulla realtà umana la possibilità che la grande avventura finisca in catastrofe. Abbiamo perso il purgatorio e il paradiso ma abbiamo fedelmente conservato l’inferno. Culturalmente il cervello non rende conto di quello che rimane nell’esperienza dell’io, frutto della concezione cristiana della persona. Ma se un giorno la costruzione di apparecchi potrà dare a questi una capacità di autocontrollo e di mimare sentimenti umani, anche il residuo cristiano della persona e dell’anima sparirà dalla memoria della civiltà della scienza e della tecnica.

La fine del comunismo ha distrutto tutte le incorporazioni di esso che erano avvenute da parte cattolica, il cosiddetto “progressismo”, nella forma di antioccidente e di anticapitalismo, esiste ancora ma non può più essere presentato come una soluzione ai problemi del mondo. La globalizzazione capitalista portata avanti dalla scienza e dalla tecnica ha cancellato del tutto l’idea di rivoluzione. E ha aperto la strada soltanto a quello che potremmo chiamare il darwinismo della storia, di cui non a caso il nazismo era stato precursore. In nome della razza eletta aveva pensato di distruggere ogni forma di razionalismo, considerato come il portato del mondo ebraico. Non vi è possibilità di pensare a una escatologia cristiana e al tema della divinizzazione che la costituisce, senza pensare a una dimensione spirituale interna all’uomo.

Il mio problema è stato quindi quello di conservare la tradizione dell’anima nella mia vita personale e di agire in conseguenza. Ricordo che al liceo fui fortemente colpito dal testo della seconda lettera di Pietro che parlava, per i cristiani, di “comunione alla vita divina”. Io capii che ormai il Cristianesimo era quello e non lo trovavo fondamentalmente espresso nemmeno nei discorsi comuni, nel modo ecclesiastico mistico voleva allora dire un po’ pazzo e i pensieri spirituali erano chiamati “mesticherie”.

La preghiera per me divenne esperienza fondamentale, passavo lunghe ore davanti all’eucarestia e scelsi a diciassette anni di farmi prete, non perché sentissi una particolare vocazione ecclesiastica ma solo per trovare un modo per nascondere questo rapporto invadente con Dio che era la mia sola sicurezza. Può essere che ciò nascondesse difetti di umanità, ma avevo veramente imparato a pregare e a stare con Dio. Sono convinto che la vita mistica sia oggi quello che sostiene la Chiesa nella incertezza della dottrina e nell’equivoco della liturgia. Per me fu di straordinaria importanza l’imparare il modo in cui Santa Teresa del Bambin Gesù aveva descritto la vita mistica. Essa aveva espresso sé stessa come puro amore di Dio parlando dell’amor divino come l’essenza spirituale della sua persona. Santa Teresa ebbe il dono di far comprendere al mondo cristiano l’esperienza della divinizzazione in Cristo che la tradizione cristiana portava nascosta in sé. In realtà ciò che sentivo attorno a me era solo il termine “salvezza dell’anima” come scopo della vita e “salvare le anime” come principale compito dei cristiani. Quello che avevo imparato era che il compito del cristiano era stare vicino a Dio e partecipare alla sua vita. Da allora scopersi che la tradizione mistica era la vera vita della Chiesa. E scopersi che il tema della divinizzazione univa la Chiesa d’Oriente a quella d’Occidente. E che era in breve l’essenza del Cristianesimo.

Perché non ho scelto un ordine contemplativo e ho pensato di rimanere come laico nel mondo? Perché sentivo che nel mondo vi era un pericolo per la Chiesa, un pericolo che veniva dal suo interno. Conoscevo abbastanza bene le opere dei teologi francesi e di quelli tedeschi e compresi che nasceva un’altra intuizione della Chiesa come interamente immanente alla storia, come incarnata in epoche diverse mantenendo la sua unità. Ma ciò impediva la continuità della dottrina, perché ogni epoca lasciava la sua impronta, quell’impronta storica era assunta dalla Chiesa come mistero proprio perché presente nella storia e quindi capace di incorporare a sé ciò che la storia donava. E tuttavia come salvare l’identità dogmatica se essa diveniva acculturazione in tutte le culture storiche?

I miei maestri principali furono San Tommaso D’Aquino e Dante Alighieri, pensai la vita eterna come essi l’avevano pensata. E il criterio che mi pareva loro proprio era di pensare la preghiera cristiana sulla terra, la mistica della persona, il rapporto del solo con Dio solo come ciò che preservava la Chiesa nel tempo anche con l’avvento del moderno. E poi del biologismo che è infine il luogo filosofico in cui si pensa radicalmente ai problemi posti dalla scienza e dalla tecnica. San Tommaso e Dante sono due vertici dell’escatologia cristiana perché hanno pensato ambedue la vita eterna. E l’hanno pensata al seguito dell’esperienza mistica sulla terra. San Tommaso vede la vita eterna come la conoscenza attraverso l’essenza divina, conoscendo tutte le cose in quello che è per noi il mistero di Dio e che diverrà, nel tempo oltre la morte, la conoscenza attraverso di lui. E’ una conoscenza operativa perché la conoscenza di Dio e il suo agire coincidono e quindi i santi nella gloria, nel tempo escatologico agiscono con Dio che agisce. La perfezione dell’azione sta nella pienezza della contemplazione. E così Dante ha descritto la visione dell’essenza divina come anticipata da lui sulla terra, e quindi la più alta forma della vita mistica in cui egli può vedere la Trinità e trovare che l’incarnazione non è dicibile nel linguaggio umano e oltre le parole. “A l’alta fantasia qui mancò possa”. Ma come conservare la fede nella vita eterna se la cultura in cui noi viviamo la rende manifestamente impossibile? Il moderno manteneva la Chiesa nella storia come soggetto storico. Aggiornare la Chiesa sulla storia era il modo di renderla parlante, anche se ciò comportava una contaminazione inevitabile con il moderno, espresso nel suo vertice dal comunismo.

Il mondo protestante ha saputo adattarsi ai nuovi tempi perché ha trovato, nel suo originario fideismo, la via d’una esperienza spirituale, quella dei pentecostali, che abbandona l’esercizio della ragione per l’intensità dell’emozione religiosa. E fida in Dio la sua personale temporalità il futuro della sua vita, lo sente come guida e protezione. E’ appunto il salto oltre la ragione. E sembra che le forma carismatiche, proprio perché intrinsecamente fideiste, siano le più adatte a resistere in un tempo in cui il biologismo sembra riassumere la realtà dell’uomo nei neuroni del suo cervello. Per il Cattolicesimo è più difficile proprio perché esso ha sempre mantenuto l’unità di ragione di fede.

Ma è ben evidente che gli uomini sentono di non potersi affidare all’incerto meccanismo dell’evoluzione e che trovino nella loro memoria cristiana la forza di esistere, credendo nell’anima divinizzata e nell’escatologia, cristiana intermedia e finale, come la realtà ultima del tempo e del mondo. Non a caso abbiamo il fenomeno degli atei devoti, il che è solo una formula difensiva; perché dirsi credenti, in senso non politico, separa dal mondo e suscita un rigetto che rende difficile l’azione. Però l’esistenza di questa categoria, per quanto singolare e minoritaria, dà il segno che la percezione di quello che è implicito nell’escatologia cristiana sia anche l’unica cosa che dà senso alla vita oltre il cervello e il biologismo dominante. Vi è anche in essi la memoria della persona e dell’anima. E hanno compreso che essa è l’essenza della persona come categoria fondante la civiltà cristiana, antica e moderna, che non trova più spazio nella concezione della storia come avventura biologica.

Don Gianni Baget Bozzo

Inviato a Il Foglio il 26 luglio 2007

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